Si pretende che gli immigrati, per essere ‘ammessi’ in Italia conoscano l’italiano; ma noi quanto sappiamo del significato delle parole?
Leggiamo dalla Treccani, dalla definizione di accògliere: ‘ricevere, e in partic. ricevere nella propria casa, ammettere nel proprio gruppo, temporaneamente o stabilmente; soprattutto con riguardo al modo, al sentimento, alle manifestazioni con cui si riceve’
Quindi ‘accogliere’ è diametralmente l’opposto da ‘dividere’, erigere muri o chiudere porti, considerare gli ‘altri’ ‘carichi residuali’ o merce da ‘smistare’ (possibilmente in un carcere per innocenti eretto fuori dai confini).
‘Accogliere’ è diametralmente opposto dal considerare gli ‘altri’, tutti gli altri senza esclusione alcuna, alla stregua di ‘invasori’ o, ancora peggio, ‘nemici’.
Se singole persone, gruppi, ‘popoli’ o ‘genti’ sono tra loro nemici, qual è il compito, il dovere, di chi vuole ‘accogliere’, ossia ‘ricevere nella propria casa’? Uno e uno solo: aprire le porte ed invitarli ad entrare, ma lasciando fuori le armi, facendosi promotore, come mossa successiva, di un dialogo tra parti avverse.
Non può accogliere, non può neanche permettersi di pronunciare quella parola, chi resta a guardare che si scannino tra di loro.
È esattamente l’atteggiamento che, fino ad oggi, abbiamo avuto noi, in una città come la nostra, che ha nell’accoglienza, ma ancora di più nella coesistenza, una lunga, importante, florida tradizione.
Ed ecco un termine ancora più alto, un impegno ancora più gravoso: essere una città promotrice di ‘coesistenza’, un modus vivendi che il mondo sta dimenticando, con risultati indubbiamente catastrofici per tutti, in un modo o nell’altro, nell’immediato o nel futuro. Perché non restino mere intenzioni, vuote parole, dobbiamo chiederci come poter realizzare questo dovere morale che è, o dovrebbe essere, nel nostro DNA.
Il primo passo potrebbe essere quello di farci promotori di una conferenza, multietnica, multiculturale, multireligiosa: c’è un’estrema, pressante, esigenza, che le varie ‘fazioni’ riscoprano il dialogo, non già attraverso i propri ‘rappresentanti’, bensì attraverso persone competenti, culturalmente preparate, che hanno come unico obiettivo la pacifica convivenza tra i popoli, dei popoli. In buona sostanza, dell’intera Umanità.
Il secondo step potrebbe essere quello di instaurare dei gemellaggi, con conseguenti incontri ed interscambi culturali, con città di ‘fazioni’ avverse, per poi proporre la nostra come località di incontro multilaterale.
Naturalmente queste sono soltanto due delle possibili proposte di ‘accoglienza’ finalizzate alla ‘coesistenza’.
Chi ha qualche altra idea fattibile si faccia avanti.
Poi si tratta solo di cominciare a rimboccarci, metaforicamente, le maniche. L’alternativa, più comoda ma assolutamente improduttiva, è continuare a farci collutori con le belle parole: ‘accogliere’, ‘coesistere’. Pronunciate in TV o da un palco, lavandoci la bocca ma conservando sporca la coscienza.
Vogliamo restare a guardare o cominciare, per quanto a noi possibile, a picconare quel muro, tanti muri, fatti non solo di mattoni, ma soprattutto di incomprensioni, diffidenza, sopraffazione, odio?